Tempo tuta: l’eterodirezione può risultare implicitamente anche in base al tipo di indumenti indossati. Cassazione Sent. n. 33937 del 5 dicembre 2023.
RILEVATO CHE
la Corte di Appello di Firenze, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado che, in accoglimento del ricorso dei lavoratori in epigrafe indicati, tutti dipendenti di UNICOOP Firenze s.c., ha dichiarato il loro diritto ad avere incluso nell'orario di lavoro il tempo impiegato nella vestizione e svestizione delle divise aziendali, condannando la società a retribuire a ciascuno di loro 10 minuti per ogni giorno di lavoro effettivo a decorrere da luglio 2007 (o per il solo Melissano Sergio dal luglio 2011); la Corte ha anche respinto l'eccezione di prescrizione sollevata dalla datrice di lavoro; 2. avverso tale sentenza la società ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi; hanno resistito con controricorso i lavoratori in epigrafe; gli altri sono rimasti intimati; il Procuratore Generale, ai sensi dell'art. 23, comma 8-bis del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, inserito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176 e succ. mod., ha concluso per il rigetto del ricorso; entrambe le parti hanno comunicato memorie; all'esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell'ordinanza nel termine di sessanta giorni;
CONSIDERATO CHE
1. i motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati: 1.1. col primo mezzo si denuncia, ai sensi dell'art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c., l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e si deduce che il giudice di appello avrebbe trascurato di considerare la prassi di molti lavoratori, e tra questi alcuni dei ricorrenti, di arrivare all'ingresso del luogo di lavoro già vestiti con la divisa lavorativa e di andar via indossandola, vestendosi e svestendosi al di fuori dei locali aziendali; 1.2. con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 1374 c.c. in correlazione all'art. 1324 c.c. ed all'art. 8 delle preleggi e si sostiene che la prassi invalsa tra i lavoratori, di arrivare al lavoro indossando la divisa e di andare via senza essersela prima tolta, ove provata dando ingresso alle prove chieste, aveva le caratteristiche di un uso normativo che in deroga a quanto previsto dal Regolamento aziendale avrebbe dimostrato l'insussistenza del diritto dei lavoratori al compenso rivendicato; 1.3. col terzo motivo viene denunciata la violazione e falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c. e dell'art. 2967 c.c. e si deduce che sarebbe stato negato l'ingresso alle prove testimoniali chieste per dimostrare l'esistenza della prassi descritta con motivazione insufficiente che richiama precedenti della stessa Corte territoriale senza individuarli e specificarne il contenuto; inoltre, con motivazione inadeguata, si sarebbe trascurato di considerare che in fatto era venuta meno l'eterodirezione datoriale al riguardo essendo stata tollerata, come sarebbe risultato dalle prove testimoniali ove assunte, con un comportamento che assurgerebbe ad uso normativo derogatorio della norma regolamentare, una condotta diversa da parte dei lavoratori che, diversamente da quanto da loro riferito, non si vestivano esclusivamente nei locali aziendali né conservavano gli abiti da lavoro presso gli spogliatoi come previsto dal Regolamento aziendale; 1.4. con il quarto motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c., dell'art. 2967 c.c. e dell'art. 113 del c.c.n.l. per i Dipendenti da Imprese di Distribuzione Cooperativa; si sostiene che il giudice di appello, ancora una volta senza dar ingresso alle prove chieste, aveva ritenuto, al pari di quello di primo grado, che i lavoratori per ottenere il pagamento del c.d. "tempo tuta" dovevano dimostrare solo l'esistenza dell'obbligo e non avrebbe tenuto conto del fatto che ai sensi dell'art. 113 del c.c.n.l. "non si considerano come lavoro effettivo il tempo per recarsi al posto di lavoro, i riposi intermedi presi sia all'interno che all'esterno delle imprese, le soste comprese tra l'inizio e la fine dell'orario giornaliero" e dunque i lavoratori per pretendere il pagamento avrebbero dovuto provare il tempo di vestizione/svestizione prima delle timbrature in ingresso ed in uscita aggiungendolo a quello risultante dai cartellini marcatempo e non, come in violazione dell'onere della prova avvenuto, limitando l'accertamento al solo quantum presuntivamente attribuibile alle operazioni di vestizione/svestizione; 1.5. il quinto motivo denuncia la violazione degli artt. 2948 n. 4 c.p.c. e 2935 c.c., correlati all'art. 18, comma 1, l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, per avere, la Corte territoriale, respinto l'eccezione di prescrizione estintiva quinquennale; 2. i primi quattro motivi di ricorso non possono trovare accoglimento per le ragioni già esposte da questa Corte in precedenti adottati su vicende sostanzialmente sovrapponibili alla presente sottoposta all'attenzione del Collegio ed ai quali si rinvia, anche ai sensi dell'art. 118 disp. att. c.p.c., per ogni ulteriore aspetto qui non specificamente esaminato (in particolare, avuto riguardo ad analoghe censure, v. Cass. n. 30958 del 2022; in precedenza: Cass. n. 5437 del 2019; Cass. n. 33258 del 2021; Cass. n. 32477 del 2021); 2.1. la sentenza impugnata è conforme all'orientamento consolidato secondo cui, nel rapporto di lavoro subordinato, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva n. 2003/88/CE (v. Corte di Giustizia UE del 10 settembre 2015 in (C-266/14), il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell'orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro; l'eterodirezione può derivare dall'esplicita disciplina d'impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell'abbigliamento; invero, è stato precisato che "La soluzione adottata dalla Corte UE conferma quindi l'impostazione assunta da questa Corte anche in relazione alla fattispecie in esame, secondo la quale, riassuntivamente, occorre distinguere nel rapporto di lavoro tra la fase finale, che è direttamente assoggettata al potere di conformazione del datore di lavoro, che ne disciplina il tempo, il luogo e il modo e che rientra nell'orario di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell'ambito della disciplina d'impresa (art. 2104 c.c., comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, ma rimesse alla determinazione del prestatore nell'ambito della libertà di disporre del proprio tempo, che non costituisce orario di lavoro […] l'eterodeterminazione del tempo e del luogo ove indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, che fa rientrare il tempo necessario per la vestizione e svestizione nell'ambito del tempo di lavoro, può derivare dall'esplicita disciplina d'impresa, o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione. Possono quindi determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro ragioni d'igiene imposte dalla prestazione da svolgere ed anche la qualità degli indumenti, quando essi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell'abbigliamento secondo un criterio di normalità sociale, sicché non si possa ragionevolmente ipotizzare che siano indossati al di fuori del luogo di lavoro" (così Cass. n. 1352 del 2016, confermata da Cass. n. 30958/2022 cit., che rinvia in motivazione a Cass. n. 7738 del 2018, Cass. n. 17635 del 2019, Cass. n. 8627 del 2020); 2.2. ciò posto in diritto, l'accertamento in ordine al fatto che le operazioni di vestizione e svestizione rientrassero o meno nel potere di conformazione della prestazione da parte della società datrice - in ordine al luogo ed alle modalità della prestazione, all'ottemperanza a prescrizioni datoriali contenute nel regolamento aziendale ed alla interpretazione del medesimo, al collegamento funzionale all'espletamento dell'attività in conformità con le previsioni di legge in tema di igiene – costituisce indagine di competenza del giudice del merito, in quanto tale sottratta al sindacato di legittimità di questa Corte; 2.3. con specifico riguardo, poi, alla denunciata esistenza di un uso aziendale derogatorio di quanto previsto dal regolamento aziendale, si è rammentato che, se in generale, nell'ambito dei rapporti di lavoro, la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole ai dipendenti integra gli estremi dell' uso aziendale che, essendo diretto, quale fonte sociale, a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con la collettività impersonale dei lavoratori di un'azienda, agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, tuttavia l'uso aziendale, quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo che agisce sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, presuppone non già una semplice reiterazione di comportamenti ma uno specifico intento negoziale di regolare anche per il futuro determinati aspetti del rapporto lavorativo; nella individuazione di tale intento negoziale non può prescindersi dalla rilevanza dell'assetto normativo positivo in cui esso si è manifestato, secondo una valutazione rimessa al giudice di merito e incensurabile in sede di legittimità se non per violazione di criteri legali di ermeneutica contrattuale e per vizi di motivazione (cfr. Cass. n. 30958/2022 cit.); 2.4. nel precedente ora citato è stato pure sottolineato che il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all'esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurato in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, da intendere come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo, e non anche per inesistenza o insufficienza di motivazione, non essendo il giudice tenuto ad indicare gli elementi sui quali la determinazione si fonda, laddove, del resto, allorché si assuma che il fatto considerato come notorio dal giudice non risponde al vero, la non veridicità del preteso fatto notorio può formare esclusivamente oggetto di revocazione, ove ne ricorrano gli estremi, non di ricorso per cassazione; legittimamente, quindi, il giudice del merito può quantificare il tempo di vestizione e svestizione in base al tipo di indumento indossato dai lavoratori, utilizzando massime di esperienza agevolmente appartenenti ad una persona di media cultura (cfr. Cass. n. 33258 del 2021; Cass. n. 2786 del 2021; Cass. n. 21168 del 2021; Cass. n. 5437 del 2019); 2.5. per ogni residua censura vale rilevare che: il vizio di cui al novellato n. 5 dell'art. 360 c.p.c. non può essere denunciato al di fuori dei ristretti limiti posti dalle Sezioni unite civili (Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014), tanto più in una ipotesi preclusa dalla ricorrenza di una cd. "doppia conforme" (cfr. art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., in seguito art. 360, comma 4, c.p.c., per le modifiche introdotte dall'art. 3, commi 26 e 27, d. lgs. n. 149 del 2022); per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre) (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020); la violazione dell'art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018); 3. l'ultimo motivo è infondato alla luce del principio di diritto, già confermato in plurime occasioni da questa Corte, secondo cui: "Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come modulato per effetto della l. n. 92 del 2012 e del d.lgs n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della l. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro" (Cass. n. 26246 del 2022); 4. in conclusione il ricorso deve essere respinto nel suo complesso e le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo, con attribuzione all'Avv. Conte che ha dichiarato di averne fatto anticipo; ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro 10.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge, con distrazione. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 24 ottobre 2023 La Presidente Dott.ssa Lucia Tria